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  • Immagine del redattoreAlessandro Santambrogio

Fochesato Colombani: il riciclo meccano-chimico della gomma rappresenta il futuro.



Il Chief Technology Officer di Rubber Conversion parla dell’evoluzione delle tecnologie e di come la chimica possa cambiare gli attuali scenari del recupero degli Pneumatici Fuori Uso garantendo prodotti migliori e a minore impatto ambientale.

Filippo Fochesato Colombani, 51 anni, è il Chief Technology Officer (CTO) di Rubber Conversion. Nato a Schio (VI), si è laureato in Chimica Industriale all’Università di Padova. La sua carriera si è dedicata allo studio dei polimeri, dapprima nelle materie plastiche e, più recentemente nella gomma, sviluppando diversi brevetti. In questa intervista ci racconta il suo percorso professionale, come è stata ideata la tecnologia proprietaria utilizzata da Rubber Conversion e le sue evoluzioni future.

Come è nato l’interesse sullo sviluppo dei polimeri plastici?

In realtà è stato un mio interesse fin dai tempi dell’Università. Anche per questo motivo, arrivato alla tesi, ho rifiutato la proposta di sviluppare un lavoro sui composti dello zinco per cercare qualcosa di più adatto ai miei interessi. A quell’epoca, a Ferrara, c’era un centro ricerca del gruppo Montell (Montedison + Shell) che sviluppava polipropilene per diversi usi e riuscii a ottenere un progetto di tesi. Il centro stava lavorando sulla colorazione dei polimeri per gli interni e gli esterni delle vetture, e stava cercando nuovi prodotti coloranti, la cui sintesi fu il mio primo lavoro sperimentale.

Osservando i processi utilizzati con la creatività e la mancanza di preconcetti tipici di chi si avvicina per la prima volta a un compito, mi resi conto che l’attività poteva essere approcciata anche in modo diverso così, una volta ultimata la tesi, sviluppai un brevetto che permetteva di colorare la plastica nel colore desiderato direttamente all’ultimo passaggio della catena produttiva direttamente in stampaggio ad iniezione, ottimizzando processo e risultati.

Quel periodo fu fondamentale per la mia formazione perché mi permise di fare esperienza in molti reparti e utilizzare macchinari e impianti molto diversi, alcuni dei quali utilizzo ancora oggi.

Una volta laureato, iniziai a lavorare con mio padre Antonio, anche lui chimico, esperto in materie plastiche, in particolare nelle fibre tessili sintetiche. Era però anche un precursore delle politiche green del riciclo, in particolare del PET, campo nel quale aveva depositato svariati brevetti. È così che ho iniziato ad appassionarmi alle tematiche del recupero dei materiali di scarto o post consumo e di economia circolare. Fu proprio sperimentando nuovi approcci e chiedendo informazioni su materiali e coloranti che conobbi l’allora capo della ricerca di Clariant Masterbatches, incuriosito dalle mie richieste. Da lì nacque una collaborazione, durata quasi vent’anni, nel corso della quale, oltre a vendere loro la licenza del brevetto, potei occuparmi dello sviluppo dei sistemi di formulazione strumentale per le colorazioni dei materiali plastici lavorando sia su mercati domestici sia su quelli internazionali.

Questa esperienza mi permise di sperimentare nuove idee e tecnologie, dalla cui esperienza nacque un altro brevetto. Un innovativo sistema di colorazione delle materie plastiche. Insieme a un socio finanziatore, abbiamo industrializzato l’idea ed è nata Vesticolor, che si rivolge a clienti di alta e altissima gamma per elettrodomestici, montature di occhiali, visiere di caschi o oggettistica di design.

Contemporaneamente a queste esperienze ho esteso i miei studi, mantenendo la vocazione alla sostenibilità, ai serbatoi di idrogeno di tipo IV per le automobili. Sebbene costruiti in compositi di fibra di carbonio, incorporano un’anima in plastica che si deve integrare con il resto della struttura, e che rappresenta la parte piu’ critica. Dallo sviluppo di questo componente fondamentale, sono nati altri brevetti, depositati dall’azienda per la quale lavoravo.

Dopo queste esperienze è poi passato al settore della gomma lavorando sul riciclo degli pneumatici usati. Come è nata la collaborazione con Rubber Conversion?

In realtà è nato tutto in modo casuale, attraverso amicizie comuni che mi hanno fatto conoscere Francesco di Pierro, socio fondatore di Rubber Conversion. Quando mi ha parlato del suo progetto, mi sono reso conto che il trend del recupero della gomma stava iniziando a prendere forma, seguendo le stesse logiche del recupero delle materie termoplastiche, che conoscevo molto bene. In più non c’era solo una logica di risparmio di costi, ma anche una di tutela ambientale.

Gli inizi non sono stati facili, sebbene le chimiche per il riciclo della gomma abbiano alcuni punti di contatto con quelle utilizzate per i materiali termoplastici. La prima svolta è avvenuta con l’assegnazione di un bando dell’Università di Trento, che mi ha permesso di testare composti chimici innovativi e ottenere i primi risultati positivi.

Questa tecnologia, che deriva comunque dall’applicazione innovativa delle mie conoscenze precedenti, è poi evoluta fino al deposito di un brevetto, prima italiano e poi internazionale.

La seconda svolta importante per lo sviluppo di Rubber Conversion è stata l’idea di Francesco di rivolgerci al Venture Capital per finanziare la crescita e lo sviluppo dell’azienda. Questo ha permesso di portare nel team altre figure di altro profilo come Giuseppe Magistrale (ex Marangoni Tyre), Roberto de Simone (ex OCSiAl) e Angelo Priori (ex Bridgestone), e di finanziare la crescita aziendale con l’entrata in compagine sociale importanti investitori come Cassa Depositi e Prestiti, LIFTT, ENET Energy.

Quali sono le differenze tra il riciclo della gomma e quello delle plastiche?

Nel riciclo delle materie plastiche da post consumo, il primo problema è costituito da un feedstock molto disomogeneo. Oltre al PET, la frazione più selezionata che deriva dalle bottiglie di acqua minerale, si trovano imballaggi realizzati con altri tipi di plastiche o articoli realizzati con plastiche miste assemblate insieme. All’inizio della pratica del riciclo tutti questi materiali venivano macinati e fusi insieme, ma la materia prima ottenuta era di bassissima qualità. Col tempo si sono sviluppate tecniche sempre più sofisticate di separazione dei materiali, che ormai ha raggiunto il suo limite, fino alla nuova frontiera, sviluppata soprattutto negli Stati Uniti e ora arrivata anche in Europa, del riciclo chimico grazie al quale è possibile tornare ai monomeri originali e produrre nuova materia prima del tutto identica alla materia prima vergine.

Nel riciclo della gomma da post consumo, invece, il materiale di partenza è più complesso ma piu’ omogeneo. Nel caso degli pneumatici fuori uso (PFU) possiamo principalmente distinguere due tipologie: i battistrada degli autocarri, più pregiati per il contenuto di gomma naturale più elevato e i pneumatici delle autovetture, che presentano una maggiore incidenza di altre gomme e di additivi come la silice.

Nel riciclo degli scarti di produzione dell’industria della gomma, che abbiamo sviluppato soprattutto per l’industria calzaturiera, abbiamo invece un feedstock di ottimo livello, in quanto si tratta di materiale nuovo non sottoposto a usura, e molto selezionato per composizione chimica.

Questo ci consente di produrre tre tipologie di gomma riciclata:

- L’SRC (Sustainable Rubber Compound) 450 EVO ottenuto dalla devulcanizzazione dei battistrada degli pneumatici autocarro.

- L’SRC 200 EVO ottenuto dalla devulcanizzazionedagli pneumatici di autovetture

- L’SDR ottenuto dalla devulcanizzazione dagli scarti di produzione di vari articoli tecnici, particolarmente le calzature.

Cosa distingue la gomma riciclata di Rubber Conversion da quella dei concorrenti?

Innanzitutto occorre distinguere tra le due tipologie di gomma riciclata: i granuli o il polverino non devulcanizzato e quelli devulcanizzati.

Nel primo caso si tratta di pneumatici che vengono tritati più o meno finemente con tecnologie di polverizzazione meccaniche o water jet. Si ottiene un materiale sostanzialmente inerte, che viene aggiunto alla mescola ma non partecipa alla reazione chimica. Può quindi essere utilizzato in bassa quantità, spesso in componenti non critiche o soggette a forti sollecitazioni in quanto, potenzialmente, può innescare punti di cricca che indeboliscono il materiale. Ha il vantaggio di potere essere prodotto in modo economico in grandi quantità.

La gomma devulcanizzata è invece molto più pregiata in quanto il prodotto riciclato partecipa attivamente alle reazioni chimiche delle nuove mescole cui viene aggiunto, diventando parte integrante del materiale. Questo tipo di materia prima seconda può essere utilizzato in quantità superiori e anche in componenti soggetti a forti sollecitazioni, come, per esempio, nuovi pneumatici o articoli tecnici ad elevate prestazioni.

Qui subentra, però una distinzione molto importante legata alla tecnologia di devulcanizzazione. La quasi totalità degli operatori utilizza un processo meccano-termico in cui la gomma viene lavorata attraverso macchinari a temperature e pressioni elevate. Questo permette, sì, di rompere i legami di zolfo creati dalla vulcanizzazione, ma rompe anche le catene polimeriche originali. Il materiale così ottenuto ha un peso molecolare molto inferiore, che si ripercuote sulle caratteristiche fisiche e meccaniche, molto più scadenti rispetto alla materia prima vergine cui viene aggiunto.

Il processo ideato e brevettato da Rubber Conversion è invece di tipo meccano-chimico. Grazie all’uso di additivi, è possibile lavorare a temperature molto più basse, rompendo in modo selettivo i soli legami zolfo senza intaccare le catene polimeriche. Si ottiene quindi una materia prima seconda di maggiore qualità, con caratteristiche chimiche e meccaniche superiori.

La tecnologia di Rubber Conversion ha un impatto ambientale molto ridotto in quanto non utilizza né disperde sostanze nocive nell’ambiente e il prodotto finito presenta le stesse caratteristiche di sicurezza di quelle del feedstock di partenza. Si tratta quindi di una materia prima seconda totalmente aderente ai principi di sostenibilità ambientale. Questo ci offre un vantaggio competitivo notevole sui nostri concorrenti.

Basti sottolineare che i nostri prodotti derivati da PFU non sono classificati come rischiosi per la salute umana, mentre lo stesso non si può dire di prodotti concorrenti, specie di origine asiatica.

Quali sono gli sviluppi futuri di Rubber Conversion e, più in generale, del settore del riciclo della gomma?

La tecnologia che abbiamo sviluppato è molto innovativa e recente. Al momento la stiamo applicando su tutte le tipologie di gomma, con ottimi risultati. Ma crediamo che ci sia un enorme spazio di crescita e miglioramento attraverso l’ottimizzazione dei dosaggi e delle componenti dell’additivo a seconda del tipo di gomma di partenza e delle caratteristiche che si vogliono ottenere nel prodotto finito. Stiamo anche lavorando sul miglioramento della cinetica chimica. Già oggi, controllando la velocità della reazione, siamo in grado di devulcanizzare in modo profondo, arrivando al 60-70%. Il nostro obiettivo è quello di superare la soglia dell’80% di devulcanizzazione, mantenendo alta la selettività verso i legami zolfo. Questi sono gli ambiti in cui si sta attualmente concentrando la nostra attività di Ricerca & Sviluppo e contiamo, entro 3 o 4 anni, di ottenere un prodotto finale ulteriormente migliorato rispetto a quello attuale, che già ha performance di alto livello.

L’altro ambito di sviluppo è quello impiantistico. Così come avviene per le plastiche, anche nella gomma servono tecnologie più innovative e complesse per il recupero delle gomme, rispetto a quelle utilizzate in modo consolidato per la produzione delle mescole vergini. Attualmente stiamo costantemente migliorando il nostro impianto di Cerea, ma il prossimo anno inaugureremo un ulteriore impianto nel nuovo sito industriale che avrà capacità produttive più elevate.

Se guardiamo a quello che sta avvenendo nel campo delle plastiche dove il riciclo chimico sta aprendo nuove frontiere, siamo fiduciosi che questo possa avvenire anche nel campo della gomma, grazie alla possibilità di produrre materia prima seconda di maggiore qualità e con impatti ambientali bassi o assenti. Per questo il nostro processo di sviluppo è improntato a un metodo scientificamente rigoroso in grado di essere scalabile e riproducibile.

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